Fin dalla metà dell’Ottocento l’Esposizione universale ha saputo funzionare come luogo di prefigurazione delle tendenze di sviluppo dell’economia e della tecnologia. Solo sporadicamente l’Expo ha saputo e voluto rendere conto delle conseguenze sociali della crescita capitalista. La crescita, come funzione dell’accumulazione capitalistica, è sempre stata l’oggetto privilegiato del discorso e dell’esposizione. Ma la parola “crescita” è diventata oggi una parola sfuggente. Da una parte la crescita produttiva è sacrificata alla mera accumulazione finanziaria, che si compie attraverso una riduzione del benessere sociale, e attraverso una riduzione del volume stesso della produzione. Nel tempo passato gli interessi del capitalismo industriale coincidevano con quelli dell’espansione produttiva della società, oggi gli interessi del capitalismo finanziario sono del tutto asimmetrici, al punto che l’economia (finanziaria) prospera tanto più quanto più la società sprofonda nella miseria, nella precarietà, nella disperazione. Il sistema finanziario ha provocato negli ultimi anni la distruzione della società europea – ormai del tutto percepibile nei paesi del sud europeo. Ed ha reso inoperante la democrazia come sistema di decisione sulla vita collettiva, dal momento che la macchina finanziaria non ammette alcun limite alla sua opera distruttiva. Ma se la finanziarizzazione ha paralizzato la dinamica della crescita, non sarà il ritorno della crescita a offrire speranze di prosperità. La jobless recovery di cui si parla, una ripresa fondata sulla disoccupazione e la precarietà, mette a frutto le nuove potenzialità tecnologiche per l’interesse dal profitto finanziario, non certo per l’interesse della società intera. Crescita senza diritti del lavoro, senza istruzione garantita e pubblica, senza garanzia di un sistema sanitario accessibile a tutti – vuol dire soltanto imbarbarimento della vita sociale. L’EXPO che un tempo sapeva essere prefigurazione di futuro, oggi non è più in grado di immaginare il futuro se non in maniera favolistica, retorica, pubblicitaria. Gli schermi levigati della smart city nascondono la devastazione dell’ambiente fisico del pianeta, ma anche la devastazione dell’ambiente psichico di una generazione senza futuro. L’immaginazione del futuro fu la ragion d’essere dell’EXPO durante il secolo che credeva nel futuro. Ma ora il futuro è divenuto impensabile, inimmaginabile. L’EXPO non è più che una vetrina ideologica. Franco Berardi Bifo
Expo vetrina del Jobs Act Per il contratto a termine viene prevista l’elevazione da 12 a 36 mesi della durata del rapporto di lavoro a tempo determinato per il quale non è richiesto il requisito della causalità. Ciò non vuol dire che obbligatoriamente i contratti a termine dovranno avere durata triennale (pericoloso eccesso di tutela verso il lavoratore!), bensì che per qualsiasi attività, settore merceologico e livello professionale sarà possibile stipulare contratti a termine della durata fino a 36 mesi senza dover minimamente motivare da parte dell’impresa le ragioni per cui si ricorre ad un rapporto a termine piuttosto che a tempo indeterminato. Quindi si dilata a dismisura quell’offesa già operata dalla Fornero al principio secondo cui il “normale” rapporto di lavoro è a tempo indeterminato, tutelato anche dalla legislazione europea (Direttiva1999/70/CE), ma indubbiamente considerato da “rottamare” da parte del nostro giovane governo. Infatti se ora le statistiche ci dicono che oltre l’80% dei nuovi rapporti avviene con contratti a termine, con questa novazione indubbiamente il 100% sarà assicurato. Giorgio Cremaschi
Tutto solito. Nient’altro mai. Mai tentato. Mai fallito. Fa niente. Tentare di nuovo. Fallire di nuovo. Fallire meglio. (Beckett, Peggio tutta) Expowhat è un progetto totalmente scontornato che al momento si presenta in forma di conferenza e di camminata nei sotterranei dell’ex magazzino dell’ortofrutta milanese, ma che ha già maturato una storia breve, densa e fantastica che trovo giusto esporne non tanto una sintesi quanto piuttosto il patos: abbiamo aperto l’esperimento e, a tempo di record, in 10 giorni, è stato dichiarato fallito. Trovo questo fatto straordinario e per certi versi bello, esteticamente godibile almeno da chi ha la passione del fuori centro, della zoppaggine o chi semplicemente predilige il processo all’opera. Per costoro l’analisi e l’esposizione di un fallimento siffatto non può che rappresentare una prelibata leccornia. Troverei interessante uno studio delle dinamiche e delle ragioni che hanno portato alla chiusura di un esperimento che voleva chiamare diversi soggetti dell’attivismo e dell’arte a discorrere intorno alla possibilità di imbastire uno straccio di narrazione altra (di vita altra) dal disegno omologante del futuro di cui l’esposizione universale non è altro che uno spunto. Uno sputo. Sono molteplici i motivi che hanno indotto a chiudere l’esperimento ma oltre a quello maledettamente reale della sussunzione e messa a lavoro di ogni voce critica ve ne sono due che rilevo particolarmente significativi e di cui, lo dico subito, almeno uno impossibile: una questione comunitaria e una linguistica, categorie inestricabilmente connesse ma che l’una non copre totalmente l’altra. La lingua madre infatti, almeno nell’accezione non sessuata, è la lingua della comunità delle origini, ma questa comunità che si identifica appunto come comunità linguistica mantiene delle aporie inscritte nell’unicità dell’individuo cioè in altre invarianti della natura umana irriducibili a qualsiasi fusione comunista che non sia la comunità di guerra. È così, si muore da soli e pure nella comunione amorosa ognuno è per sé, ognuno in solitudine nel proprio divenire desiderante. Sono i temi della comunità inconfessabile che sono lì perennemente sotto traccia a rodere ogni costrutto logico di cambiamento della società, sono lì insistenti nonostante il moltitudine pensiero, sono lì silenti fin quando non si presenta il problema del che fare, come probabilmente è successo in questo esperimento fallito. Di fronte al problema del che fare ognuno risponde io faccio, io comunità di macao faccio, io comunità di expowhat faccio, io comunità degli stalker faccio, io comunità expolis faccio, addirittura in un mio delirio ho espresso (se può essere un’attenuante, solo implicitamente) un io comunità di Brera, quando invece sarebbe più conveniente alle condizioni attuali di dominio a mezzo linguistico capire cosa possiamo-non-fare. Cosa possiamo non fare agisce contestualmente su due livelli quello dell’inoperosità quale pratica di sottrazione dal dominio del capitale e di conseguenza quello di un recupero della potenza del non senza il quale non è immaginabile alcun esodo. A questo livello s’innesta la riflessione sulla lingua padrona che, nessuno la prenda male perché il virus non risparmia nessuno, informa e guida le nostre prassi e riflessioni. Solo a questo livello si può e si deve agire. Porre attenzione alle parole che si usano nel linguaggio ribelle può condurre ad uno stato paranoico, è vero, ma non conosco altre strade se si vuole spezzare l’ordine discorsivo del potere, cambiare il panorama narrativo e tentare una nuova storia. Per sempre fuori dal lavoro. Lavorare sulla disarticolazione del linguaggio come a volte sa fare l’arte o la letteratura può essere utile come nel caso in cui il fallimento diventa la cifra di questo infanticidio di esperimento, recuperando e cambiando di segno il fallimento stesso per usarlo come grimaldello per far saltare l’automatismo della cooptazione e mostrare l’altra faccia con la smorfia del beffeggio: dichiarare il mio fallimento vuol dire il fallimento dell’expo. Questa è una performance. Mauro Folci
La Questione Sociale 1899/1900 | EXPO 2015 Un fil rouge lungo 115 anni. Nel 1899, all’ombra di una Tour Eiffel appena costruita per l’occasione, la Grande Expositione Universelle ospitò la prima edizione di La Questione Sociale, una grande mostra organizzata dal Musée Sociale con lo scopo dichiarato di aprire un fronte critico al modello di sviluppo capitalistico dispiegato in tutte le Grandi Esposizioni Universali a partire da quella di Londra del 1851, nel Crystal Palace di Hyde Park (progettato per l’occasione da Joseph Paxton). Fin dal 1894, il Musée Sociale lavorò a una visione del mondo e dell’umanità basata su principi di equità e di solidarietà sociale supportata dal lavoro di comunità e di ricerche che da tutto il mondo confluirono dentro La Questione Sociale, a illustrarne il significato con progetti realizzati, e studi avanzatissimi per l’epoca, contrapposti alla spettacolarizzante vetrina della Grande Expositione Universelle. La mappatura delle povertà degli inglesi, i progetti educativi per i bambini di colore degli americani sono solo alcune delle iniziative esposte per l’occasione e di cui non è rimasta più alcuna traccia, nemmeno nei meandri infiniti della rete Internet, se non negli archivi del Musée Sociale di Parigi. A partire dalla rimozione storica di quell’esperienza, che fu il motore della creazione del welfare in Francia, l’idea è quella di riproporre sia il racconto di quell’evento storico in tutta la sua visionarietà anticipatrice, in partnership col Musée Sociale, che la riattualizzazione nella nostra epoca. Individuando e raccontando la ricerca accademica e artistica contemporanea sui temi trattati da La Questione Sociale, per offrire al mondo lo state of the art del nostro attuale sistema sociale. Nel 2015, anno che vedrà svolgersi l’ultima delle grandi esposizioni universali europee, l’EXPO di Milano sarà l’occasione che vogliamo cogliere per rilanciare le tematiche che La Questione Sociale pose in quel lontano 1889, per fare il punto sullo sviluppo storico del capitalismo contemporaneo e sulle tensioni riformiste e antiriformiste che hanno attraversato le politiche nazionali e globali fino alla crisi attuale.
Aldo Innocenzi, Gaetano La Rosa, Museo Relazionale C.I.A.C.