“La questione sociale” in mostra nell’anti museo del CIAC

Parigi, 14 aprile 1900. La seconda Esposizione universale, dopo quella organizzata a Londra nel 1855, apre i battenti  nella capitale francese, dove  lascia segni importanti e maestosi come la Gare de Lyon, la Gare D’Orsay divenuta poi museo, e soprattutto la Tour Eiffel, la grande sfida al cielo, il dito puntato su obiettivi lontani e grandiosi.

Così si apriva l’ultimo frammento del millennio scorso, il secolo breve. Il tempo e lo spazio stavano per essere divorati dalle nuove macchine e dalle nuove idee. Niente sarebbe più stato come prima. Tutto era destinato a cambiare. L’umore era alle stelle. I sogni stavano per essere realizzati. Il progresso rappresentava il bene, il destino al quale consegnare con fiducia il mondo intero. Era la nuova religione e con la fede di tutte le religioni veniva accolta.

Quattordici anni dopo, il primo grande conflitto mondiale veniva a dare un macroscopico segnale discordante: la fiducia che aveva pervaso la visione del mondo dell’Expo di Parigi iniziava a vacillare. Da quel momento in poi il tempo avrebbe corso velocissimo, è vero, portandosi dietro però scie di morte, e non solo di crescita.

È la fantastica storia del Novecento, il secolo breve ma anche l’epoca dei grandi tentativi.

Centotredici anni dopo, al CIAC viene organizzata una mostra ispirata all’Esposizione universale di Parigi, un work in progress che sarà inaugurato la mattina del 20 aprile al Castello Colonna di Genazzano, sede del museo relazionale gestito dal direttore del CIAC  e da Aldo Innocenzi del collettivo d’arte Stalker, che insieme hanno curato l’evento intitolandolo La questione sociale.

È trascorso più di un secolo dal sogno parigino universale di un progresso che doveva portare il bene in ogni luogo, dentro ogni classe sociale, nell’intimo di ogni persona, nei rapporti personali e nelle relazioni pubbliche, nelle faccende private e in quelle sociali, nell’anima e nel corpo, nello spirito e nella sostanza. L’iniziativa del museo relazionale di Genazzano è una sorta di day after, che nasce sulle macerie di quel sogno, che quelle macerie raccoglie e interroga. La questione sociale arriva dopo la caduta, quando la cosiddetta decrescita ha da tempo preso il posto dello sviluppo nelle aspettative salvifiche di molti, quando il mito della velocità è stato sostituito dalla lentezza di slow food, slow school, slow life, slow wine.

A guardare bene però, cambiano i termini, si rovesciano le prospettive, ma la domanda in fondo è sempre la stessa: qual è la strada che porta alla felicità? Oggi come ieri le forze sono impegnate a risolvere questo nodo che proprio sembra non volersi sciogliere. Abbiamo chiuso un millennio e ne abbiamo aperto un altro, ma siamo ancora sul terreno delle grandi prove, siamo fermi alla domanda cui non riusciamo a dare risposta perché a ogni tentativo veniamo smentiti.

Se un tempo si pensava che per vivere bene ci fosse bisogno di molte cose, ora si pensa che basti poco, anzi che addirittura più si ha e peggio è. A leggerla così però, tutto sembra obbligatoriamente legato alle risorse in campo. Come dire: moduliamo la felicità su quello che c’è. Il resto non conta.

La questione sociale, proprio in virtù del suo essere arte relazionale, cioè quasi antimuseale, esperienza che chiama gli spettatori a uscire dagli spalti per salire sul palcoscenico direttamente nello spazio in cui le persone non guardano ma agiscono; in virtù di questo, la mostra può diventare un’ottima occasione per ribaltare la prospettiva secondo la quale la felicità deriva esclusivamente dalle cose.

Trasformare l’arte in laboratorio non è un fatto nuovo. E non lo è nemmeno coinvolgere il pubblico per ribaltare i ruoli tradizionali della messa in scena dell’arte. Tutto il Novecento lo ha già fatto. La novità dell’iniziativa di Genazzano sta nel venire a posteriori per ripartire, di nuovo, dal grado zero della storia, dei linguaggi, della parola. Stavolta però diversamente dal passato, perché i giochi sono finiti e la nuova partita viene affrontata mentre corre il count down per la sopravvivenza. La questione socialegetta gli artisti in pasto alla società civile. Rovescia il Novecento. Lo confonde. Costruisce un gioco di specchi tra la realtà e la sua gente e l’arte e la sua gente, nel tentativo estremo di cercare una via d’uscita da un sistema mondo che ogni giorno di più prende le sembianze di un labirinto. Questo laboratorio intende riformulare la sostanza oltre che la parola. A partire dalla relazione, dalle relazioni, perché è qui che probabilmente si nasconde la risposta a quella domanda sulla felicità spesso ritenuta impraticabile. Un laboratorio di relazioni che esca dalle strutture della vecchia società di massa che ha evidentemente fallito da ogni punto di vista, da quello etico a quello economico, politico, emotivo, logico, materiale. Un luogo in cui verificare possibilità altre da quelle intraprese dal secolo scorso, mentre la storia corre costante verso nuovi disastri. Un passo lento e in controtendenza verso la felicità.

Monica Micheli

dal quotidiano online Gli Altri del 16/04/2013

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